«Scuole professionali, un errore valutarle come seconde scelte»

Valerie Schena Ehrenberger, amministratore unico di Valtellina Lavoro:

«Si dà un valore scarso a ogni formazione pratica». «Spesso le scuole professionali vengono identificate come una seconda scelta: quest’impostazione è sbagliata e deve cambiare».

Il dibattito sulla scelta degli indirizzi scolastici al termine della secondaria di primo grado, alimentato dalla mancata attivazione della prima classe della sezione per meccanici del “Caurga” di Chiavenna, può contare anche sul contributo di Valerie Schena Ehrenberger, amministratore unico di Valtellina Lavoro.

Dal 2001 questa società opera in provincia di Sondrio nell’ambito della ricerca e selezione di personale, ma anche nella consulenza aziendale e nella formazione.  

Non sono tempi felici per alcune scuole professionali, che faticano a trovare iscritti. Secondo lei da cosa dipende?

L’attuale sistema formativo scolastico italiano è improntato sull’arricchimento intellettuale, con una parziale eccezione nella scuola professionale.

Fino a 14 anni tutti i ragazzi sono incanalati in un percorso che premia unicamente lo studio, non c’è infatti una materia meramente pratica.

Abbiamo declassificato l’approccio pratico e operativo, si è voluto scollegare completamente la formazione fino alle superiori da ogni applicazione manuale.

A volte si ha la sensazione che nei consigli orientativi delle scuole ci sia soprattutto una classificazione che associa i migliori risultati ai licei e viceversa i casi di difficoltà alle scuole professionali, tenendo in secondo piano le attitudini degli studenti. Lei cosa ne pensa?

Il lavoro manuale viene sottovalutato: si conferisce un valore mediamente scarso a ogni formazione pratica.

Nessuno è incentivato a scegliere questo settore, ma è visto come perdente se si iscrive al corso per ebanisti o pasticceri o meccanica. È una concezione sbagliata.

Nella vicina Svizzera, di cui parliamo spesso come modello, c’è un tasso di laureati piuttosto basso, ma l’economia funziona. Inoltre ci sono varie grandi aziende sul nostro territorio guidate da imprenditori che hanno studiato al professionale.

In Italia le scuole più “prestigiose” sono ritenute occasioni di mobilità sociale ascendente. È una concezione corretta?

Dipende se parliamo unicamente di livello culturale o anche di quello economico. Spesso i tecnici guadagnano ben più dei laureati. Alla base di questo equivoco c’è una variabile culturale, un’ideologia errata.

Bisogna tornare a pensare che non siamo tutti uguali, ci sono ragazzi che hanno la passione e le capacità per diventare cuochi, estetiste, fabbri ed elettricisti in gamba.

Non ci deve sentire un fallimento perché si vuole lavorare in cucina o in fabbrica, anzi.

Gli studenti della secondaria di primo grado sono nativi digitali. Secondo lei conoscono a sufficienza le opportunità di lavoro offerte dalla digitalizzazione, anche nei laboratori delle industrie?  

No, mancano opportunità di informazione efficaci sul mondo dell’Impresa 4.0. Il tavolo per il capitale umano, con gli incontri promossi su questa tematica, era un’occasione preziosa di informazione e confronto con associazioni di categoria, imprese e professionisti.

Noi dovremmo avere la possibilità di andare più nelle scuole e fare vedere che la fabbrica è cambiata, perché i ragazzi motivati e con elevate potenzialità non mancano.

Vorrei citare un esempio. Tempo fa abbiamo selezionato un diplomato di 19 anni del Romegialli di Morbegno, appassionato di automazione.

Assunto da un’azienda valtellinese del settore lapideo, attualmente lavora negli Stati Uniti.

Vari imprenditori sostengono di avere le risorse e il desiderio di investire in nuovi macchinari, ma di non sapere dove trovare gli operatori.  

Il calo demografico è la prima variabile da tenere in considerazione. Mancano fisicamente le persone e le ricerche sono a volte molto complicate.

Sia perché c’è il fortissimo richiamo nei confronti dei valtellinesi non solo della vicina Svizzera, ma ormai di tutti i paesi dell’Unione europea, Germania e Uk in primis, sia perché non è facile attrarre competenze provenienti da altre province italiane, a cominciare da quelle limitrofe che hanno le stesse problematiche.

Anche la permanenza in Valtellina delle figure senza radici sul territorio che sono assunte da imprese locali è mediamente breve.

È possibile definire la quantità di tecnici dei quali si ha bisogno in Valtellina?

Stiamo parlando di centinaia di persone che mancano. Non possiamo dimenticare il grande movimento delle professioni Stem – nell’ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico – e della sfida alla valorizzazione delle donne in questi settori.

C’è molto lavoro da fare ed è indispensabile affrontare queste sfide in modo concreto e rapido.

Articolo pubblicato sul quotidiano “la Provincia di Sondrio” Sabato 16 febbraio 2019